Lacchè

Lacche

Il Prof. Guglielmo Bertagnolli in una rivista di inzio 1900 descrisse il carnevale di Romeno:

“Così a Romeno nell’ultimo giorno dell’anno si raccolgono i giovani per dare con solenne mascherata l’ultimo addio alla Carne. Son bianchi pagliacchi, detti Lachè, adorni di un cappello rosso a pano di zucchero tutto sfavillante di monili d’oro e d’argento, con due lunghi nastri di seta che giungono “fin passà zo l’us dela stala”  come dicono i nostri. I vecchi hanno dato i loro orologi d’oro massiccio, le spose gli orecchini e le collane, le catene e le spille, le medaglie magari con l’effige d’un Santo Antonio o d’un austero San Francesco, tutto quel po’ di metallo prezioso che c’era in casa, per ornare i berretti a quei “buli”  che qualche volta portano un piccolo tesoro (fin anco settecento fiorini) cucito sul pano di zucchero porporino. In mezzo alla piazza si cuociono dodici staia di polenta con grande maestria di mestolo e di muscoli, poi si scodella, e ciascuno dei Lachè ne prende una fetta sur una pezzuola bianca e la porta ai vicini, indigeni o stranieri, cosicché tutti, uomini e donne, fanciulli e bambini la vanno a gustare. Se, poniamo il caso, qualcuno si trova affacciato alla finestra, il Lachè gioca di destrezza e “sgiaventa”  la polenta in alto, in modo che bellamente venga a cadere sul davanzale; c’è anche un po’ di musica, fatta dagli Arlecchini, che dedicano le serenate alle belle; ci son maschere che declamano lunghe prediche come per esempio: “le magnifiche ed arci più che sopramagnificentevolissime proprietà, qualità, nobiltà e virtù dell’illustrissima non mai abbastanza lodatissima polenta”; i Pagliacci poi chiamano con le nacchere le belle alla finestra e gettano loro la gialla, augurale polenta con mille versaci e complimenti comicissimi”.